«Senza la speranza vince la cocaina» quarta parte.

 
 
«Senza la speranza vince la cocaina»
Il dominio della competività Emilio Rebecchi
analizza i comportamenti in fabbrica e le cause che fanno crescere il
consumo. Migliorare le prestazioni è funzionale alla produttività La
società è classista, se non hai soldi di famiglia per pagarti la dose
spacci, rubi o ti prostituisci
Loris Campetti
Bologna

«Il carcerato almeno una speranza ce l’ha:
quella di uscire dalla galera, per fine pena o tentando la fuga. Spesso
si ha l’impressione che al giovane, al giovane operaio, sia negata
anche la speranza di fuga. Se a un ragazzo togli la speranza di
costruirsi un futuro gli hai tolto un diritto fondamentale». Il
ragionamento di Emilio Rebecchi segue una logica stringente quanto
disperante. Psichiatra, psicoanalista, attentissimo ai comportamenti
giovanili e alle dinamiche sociali nei posti di lavoro, Rebecchi ha
lavorato a molte ricerche e inchieste ed è a lui che chiediamo un aiuto
per tentare di decodificare le ragioni che stanno dietro la spaventosa
diffusione di sostanze stupefacenti nelle fabbriche, negli uffici, nei
cantieri. Il consumo di droghe tra i lavoratori non rappresenta certo
una novità, ma oggi sono cambiate le motivazioni, le modalità del
consumo, le stesse sostanze assunte e soprattutto, è cambiata la
dimensione del fenomeno. Lo incontriamo nel suo studio sulla collina
bolognese.
«Io ho sempre apprezzato moltissimo Pantani. Mi ha
colpito il ragionamento che faceva ancora prima di diventare un grande
campione: ‘io sono il più forte, diceva, ma se gli altri prendono le
sostanze resto indietro. Bisognerebbe che tutti smettessero, e siccome
questo non avviene sono costretto a prenderle anch’io’. Il ragionamento
non fa una piega, ma così si alza il livello dello scontro. Conosco un
gruppo di bolognesi che pratica il ciclismo per passione, diciamo che
fanno cicloturismo. Lo sai che si bombano anche loro? Mica lo fanno per
vincere, non c’è niente da vincere; lo fanno per competere, per reggere
il livello degli altri. Per non lasciare adito a dubbi di sorta preciso
subito che di questo gruppo non fa parte Romano Prodi». La
competizione, il miglioramento delle prestazioni, sono i nodi centrali
della chiave interpretativa che ci offre Rebecchi. Ma procediamo con
ordine. «Io non criminalizzo la chimica: la chimica esiste, è utile in
mille circostanze. Ma se la utilizzi per aumentare le tue prestazioni,
sessuali, lavorative, persino per divertirti, allora vuol dire che c’è
un problema. Intendiamoci, tanti artisti, poeti, scrittori hanno
assunto droghe per curiosità, per conoscenza. Lo stesso Siegmund Freud.
Ma stiamo parlando del Medio Evo. Oggi i ragazzi si drogano come noi si
beveva il caffè o si succhiava il latte dalla mamma. Per loro farsi una
striscia di coca o un’anfetamena è un fatto normale, persino ovvio.
Senza alcuna solida motivazione il giovane diventa ‘spontaneamente’
consumatore. Incindono molto i modelli culturali (la competizione
spinta all’esasperazione) e interviene un fatto imitativo. Così come da
bambini si vuole andare al Burghy o al Mcdonald’s perché lo fanno tutti
a prescindere dalla schifezza che ti danno da mangiare, così qualche
anno più tardi, con lo stesso atteggiamento, può capitare di farsi di
cocaina. Questo segnala la presenza di un vuoto che spesso si tenta di
riempire con la droga. E siccome la società è classista, se non hai
soldi di famiglia, per pagarti la dose rubi, o spacci, o ti
prostituisci».
Arriviamo al mondo del lavoro. Se con le categorie
interpretative classiche si comprendono alcuni comportamenti ‘devianti’
nel sottoproletariato, è più difficile farsene una ragione quando il
soggetto interessato è l’operaio di fabbrica. «Saltano le differenze
etiche. Ammettiamo pure che in fabbrica a spingerti al consumo possa
essere una condizione difficile, segnata dalla fatica. La fatica alla
linea di montaggio, dove la durata della mansione che si ripete sempre
uguale a se stessa è al di sotto del minuto, provoca effetti negativi
sulla salute dell’operaio, dolori, lombalgie. Una situazione di questo
tipo farebbe pensare che la sostanza adatta ad alleviare la condizione
di sofferenza sia l’eroina che è un anestetico e dunque attenua il peso
e le conseguenze di un lavoro faticoso. Invece sempre più spesso la
droga assunta, anche in fabbrica, è la cocaina. La cocaina è un
eccitante, serve ad aumentare la produzione». Le parole di Rebecchi
sono confermate dal racconto di tanti operai che abbiamo intervistato:
il picco produttivo spesso e volentieri si verifica durante il lavoro
notturno, il terzo turno che è quello dove il consumo di cocaina è più
alto, anche per una rarefazione dei controlli. Se ne deduce, chiedo a
Rebecchi, che la cocaina è funzionale alla produzione e dunque è una
‘droga di sistema’? «Negli anni Settanta l’uso di sostanze poteva avere
una qualche connotazione antisistema, oggi è tutta interna, verrebbe da
dire funzionale al sistema. Non vale solo per gli operai, vale per i
manager, per gli sportivi». In fabbrica c’è chi sostiene che si riesce
a convivere meglio con l’eroina che non con la cocaina… «E’
verissimo, con l’aggravante che la cocaina ha un’azione sulle
arteriole, può provocare microinfarti. Alla lunga ti brucia il
cervello. Un effetto analogo può essere provocato dalle anfetamine di
cui è quasi sempre sconosciuta la composizione».
Come si può
intervenire rispetto a questo fenomeno, come si possono aiutare i
giovani operai finiti nell’imbuto del consumo, in molti casi nello
spaccio per potersi pagare la dose quotidiana? «La cosa che rende più
difficile l’intervento è proprio la mancanza di motivazione sociale
nella decisione di assumere sostanze, che non sia l’aumento della
prestazione individuale e di conseguenza della produzione. Sei
disarmato, anche gli strumenti tradizionali come la psicoanalisi sono
spuntati. Ti può capitare di chiedere a un giovane paziente di fare
delle libere associazioni, dopodiché a un certo punto ti domandi: ma
che vuoi che associ questo poveraccio, se non ha un cazzo di idea nel
cervello? Dico che ti senti disarmato perché se il giovane consumatore,
che sia operaio o studente, non ha una motivazione, quando gli dici di
smettere ti risponde semplicemente ‘e perché? Mi piace’. Guarda che
domani starai male, avrai delle conseguenze gravi sulla salute, gli
contesti, ma ti accorgi che non glie ne frega niente. Il che vuol dire,
lo ripeto, che nelle giovani generazioni c’è una caduta, una rinuncia a
costruirsi un futuro, una prospettiva di vita». E la vita stessa perde
di valore… «Senza ideali, non solo politici o religiosi ma
semplicemente civili, si resta solo dentro una realtà durissima che non
si sopporta più. Così si finisce per tornare all’infanzia, si
regredisce allo stadio all’oralità. Vuoi dimostrare di essere più
potente di chi ti sta vicino».
La scelta può essere individuale, ma
un fenomeno di queste proporzioni assume inevitabilmente un carattere
sociale. Dice Rebecchi: «La regressione è legata alla natura della
società in cui viviamo, e l’aumento della prestazione individuale, in
qualsiasi campo, risponde al comandamento della competitività». Alcuni
operai, a conferma di quanto ci dice Rebecchi, ci hanno spiegato che ci
si fa, e si convince anche il partner o la partner a tirare coca, prima
del rapporto sessuale per migliorare le prestazioni. «E’ la logica
maschile classica di chi vuole dimostrare che ce l’ha più lungo, la
sessualità si riduce all’aspetto penetrativo. Pensi che in un rapporto
sia questo e solo questo a interessare la donna. E ti esalti perché una
striscia di cocaina ti fa sentire più potente ma non sai, o non ti
interessa sapere che col tempo quella roba ti renderà impotente».
Rientriamo
in fabbrica. Alcuni operai sostengono che la cocaina aiuti la
socializzazione con gli altri operai, oltre a migliorare la prestazione
individuale. «Certo – risponde Rebecchi – ma è la socialità della
colpevolezza, certo non è la socialità della condivisione. E’ la
denuncia estrema di una condizione di solitudine. E se in passato
drogavi generazioni intere per mandarle a combattere e morire in
guerra, oggi con la caduta dei valori le distruggi drogandole per farle
produrre di più alla catena di montaggio». Rebecchi conclude il suo
ragionamento tornando al concetto della mancata motivazione
nell’assunzione di sostanze ‘dopanti’, da cui discende la mancata
motivazione a smettere: «Il generale cinese Zhu De era dedito al
consumo di oppio. Quando iniziò la Lunga marcia, prima di assumerne il
comando fece una scelta, aveva una motivazione forte per smettere.
L’unico luogo in cui era vietato il consumo dell’oppio era il fiume
Yangtze, così salì su una barca che scendeva il fiume chiedendo al
proprietario di non fargli mettere i piedi a terra per alcuni mesi, per
nessuna ragione. Così, con una motivazione forte, vinse le sue due
guerre». (4, fine)
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