Cresce la diffusione delle droghe, da Taranto a Maranello. Terza puntata

 
 
Inchiesta Cresce la diffusione delle droghe, da Taranto a Maranello. Terza puntata
Tra fatica e coca, operai alla catena
Il grande rimosso Le aziende oscillano tra
silenzio e repressione, sindacato in difficoltà. A rischio la sicurezza
sul lavoro: si svaluta il salario, si svaluta la vita
Loris Campetti

Ancora metalmeccanici, ancora droghe. «Hai
deciso di metterci in mezzo?», mi chiede con tono scherzoso ma anche
preoccupato un delegato della Fiom. La verità è che va reso onore al
coraggio di questa categoria, e al suo sindacato più rappresentativo:
non è facile mettere in piazza problemi come questi che costringono ad
aprire una discussione a tutto campo, sul rapporto con le nuove
generazioni di lavoratori e di esse con il lavoro, il conflitto, il
sindacato, sul ruolo stesso dei delegati sindacali, le Rsu. Non tutti
sono disposti ad aprire questo libro doloroso perché parla di
sofferenze dei giovani, nel lavoro come nella vita, una vita alla
giornata, senza investimenti sul futuro. Parla di solitudini operaie,
cioè di quella classe che liberando sé stessa avrebbe dovuto liberare
l’umanità. Raramente, invece, «la classe» è apparsa incatenata come
oggi, alla linea di montaggio innanzitutto. E poi a una nuova povertà,
con salari che continuano a perdere valore dentro un lavoro non più
riconosciuto socialmente. Prigioniera, infine, di una cultura dominante
televisiva, in cui all’emancipazione individuale e collettiva si
sostituisce l’emulazione dei comportamenti e consumi di chi «ce l’ha
fatta», magari del padrone. E il conflitto, che «naturalmente» dovrebbe
essere agito nei confronti di chi ti sfrutta, si scarica invece contro
i soggetti socialmente più deboli.

La cessione del quinto
Occuparsi
di droghe sul lavoro aiuta a scoprire meglio la materialità della
condizione operaia. Di chi si è già mangiato il 70% del Tfr per
l’acquisto della casa, di chi ha ceduto un quinto dello stipendio per
attivare un mutuo, magari per comprare l’automobile nuova o la tv al
plasma, commenta un vecchio operaio bergamasco. E via di quinto in
quinto finché dello stipendio non resta nulla, un pezzo alla volta è
finito in tasca ai moderni strozzini, finanziarie e banche che si fanno
pagare il 13% di interessi sui prestiti. Sempre che tu abbia un
contratto a tempo determinatato, se sei un precario non puoi concederti
neanche il lusso di farti succhiare lo stipendio. Eccola, la nuova
classe operaia in carne e ossa.
Concludendo i lavori della
conferenza nazionale d’organizzazione della Fiom a Cervia, il
segretario generale Gianni Rinaldini ha raccontato un paese inquietante
segnato dagli effetti di una globalizzazione selvaggia che spinge gli
operai a competere tra di loro. La crisi del lavoro, amplificata dalla
sua frantumazione, fa saltare un modello logorato di rappresentanza
sindacale e sociale. In questo contesto opera la spinta delle imprese
allo smanetellamento della contrattazione collettiva, per sostituirla
con rapporti ad personam con i singoli lavoratori. All’interno
dell’individualizzazione del rapporto con il lavoro e con il padrone,
si inserisce la massiccia e crescente diffusione delle sostanze
stupefacenti in fabbrica, nei cantieri edili e navali, nei servizi.
«Che altro deve accadere? Se il problema è di queste dimensioni – ha
detto Rinaldini in riferimento all’inchiesta del manifesto – dobbiamo
aprire una discussione tra noi e con i delegati». Anche questa è una
scelta coraggiosa, sapendo che la rottura del silenzio scatena reazioni
pericolose da parte delle aziende, che o non sanno quel che succede
nelle loro fabbriche, o più verosimilmente fingono di ignorarlo. Quando
la verità s’impone, il passaggio dalla rimozione alla repressione viene
spontaneo ai dirigenti d’azienda, un fatto di dna. Ed ecco allora che
dai delegati si pretenderebbe la delazione, quando non si passa
direttamente alla violazione della legislazione che tutela la privacy
dei lavoratori: alcune piccole aziende hanno tentato di imporre ai
dipendenti o agli aspiranti tali le analisi delle urine per verificare
l’eventuale consumo di sostanze. Si può capire il comunicato dei
delegati Fiom della Sevel Val di Sangro che, pur aggrappandosi a una
lettura un po’ riduttiva della diffusione di cocaina nel loro
stabilimento, ne ammettono l’esistenza e anzi denunciano le loro
ripetute quanto inascoltate richieste alla direzione aziendale di
affrontare il problema «con serietà e trasparenza, senza
criminalizzazione di chi vive questa condizione».
Un aspetto
preoccupante, segnalato da un’inchiesta commissionata dalla Regione
Basilicata di cui ha riferito il manifesto di venerdì scorso, è legato
al rischio che il consumo di droghe possa provocare un abbassamento dei
livelli di sicurezza e, di conseguenza, un aumento degli infortuni sul
lavoro. Me ne parla un operaio di un’acciaieria (ci si consenta la
genericità del riferimento, ampiamente giustificata dalla delicatezza
della questione e dal rischio che corre chi prova a metterci le mani):
qualche settimana fa si è verificato un grave infortunio, per fortuna
non mortale, a una macchina. Nelle tasche dell’operaio ferito sono
state trovate alcune bustine di cocaina. In un’altra fabbrica di peso,
un delegato ha chiesto un incontro con il responsabile del personale
per denunciare la diffusione della cocaina, mosso dalla preoccupazione
che ad essa sia connesso un possibile aumento degli infortuni.
«L’azienda ha finto di cadere dalle nuvole. I casi sono due: o non
controllano la fabbrica, e sarebbe gravissimo, oppure fanno i finti
tonti per evitare ricadute sull’immagine».
Il consumo di droghe
(cocaina in particolare) cresce con l’abbassamento dell’età media dei
lavoratori e con lo spezzettamento del ciclo produttivo, accompagnato
dalla terziarizzazione di pezzi di produzione e servizi e dal lavoro in
affitto, che fanno convivere nello stesso posto di lavoro imprese e
forme contrattuali assai diverse. Per i delegati è sempre più difficile
controllare o addirittura conoscere l’insieme, il che rende più fragile
lo stesso intervento sindacale. Se i giovani in molte realtà assumono
coca, il fenomeno dell’alcolismo è legato tradizionalmente ai
lavoratori ultraquarantenni. Dal Veneto all’Emilia quest’ultimo
fenomeno è particolarmente diffuso, come confermano alcuni delegati
della Bassa reggiana. In Emilia mi raccontano di operai allontanati per
ubriachezza: è il caso della ex Landini a Fabbrico, nel Reggiano, dove
il consumo di cocaina è limitato ad alcuni casi concentrati nel turno
di notte: «Canne a go-go, ma roba pesante poca». Il fenomeno è comunque
abbastanza contenuto e sotto controllo, grazie anche a una rete
efficiente di servizi nel territorio, figli del modello sociale
emiliano. Qui, come in altri stabilimenti della regione, sono
moltissimi i giovani assunti dal Mezzogiorno d’Italia e sbattuti in
un’area geografica dove la vita è carissima e una casa in affitto costa
poco meno dell’intero stipendio. Campare con mille euro al mese o poco
più non è facile, non consente di costruirsi un futuro e la vita si
brucia sulla linea di montaggio giorno per giorno. Alla ex Landini
lavorano anche 70-80 indiani. Non bastano i menù differenziati per
costruire una buona convivenza, tra italiani e immigrati
extracomunitari, tra emiliani e meridionali, tra giovani e anziani.
Persino nel consumo delle sostanze i comportamenti sono differenziati.
In
una grande acciaieria come l’Ilva di Taranto – tra diretti e indiretti
oltre 17 mila lavoratori, le dimensioni di una cittadina di provincia –
si può trovare di tutto, mi raccontano, «è una specie di supermercato
in cui puoi comprare anche cocaina. Sta diventando un problema in uno
stabilimento in cui è pericoloso anche camminare, figuriamoci lavorare
all’altoforno. Devi essere lucido, attento, sennò rischi di farti male
e fare del male ai tuoi compagni. Pensa all’attenzione a cui è chiamato
chi lavora sul carroponte e sposta una siviera contenente 300
tonnellate di metallo liquido». Chi racconta queste cose è preoccupato
per gli effetti delle droghe consumate sul lavoro, e lo è anche per il
rischio che aprire questo capitolo possa fornire «un alibi ai padroni,
pronti a ripetere la solita canzoncina: gli infortuni? Colpa della
distrazione degli operai. E’ un imbroglio, perché le responsabilità dei
morti e dei feriti sul lavoro sono degli imprenditori, dei ritmi
insopportabili, della non applicazione della normativa sulla sicurezza,
dell’organizzazione del lavoro». Detto questo, aggiunge un secondo
operaio, «non dobbiamo nascondere le nostre di responsabilità». Ma la
riduzione del potere di controllo delle Rsu, sottoposte all’attacco e
all’emarginalizzazione da parte degli imprenditori, la fatica che fanno
i Rappresentanti sindacali per la sicurezza ad assolvere al loro ruolo,
troppo spesso osteggiato dalla controparte, sono ostacoli alla
costruzione di un modo di lavorare meno pericoloso. E’ la solita
storia, «per i padroni contano solo la produzione e il profitto».

Li riconosci dal cambio d’umore
Dai
fumi e dal fuoco dell’altoforno passiamo alla griffe più prestigiosa
del made in Italy, la Ferrari di Maranello. L’uso di sostanze, che una
volta era connesso al mondo dorato della Formula 1, qui in fabbrica «si
intuisce, anche senza vedere il tuo compagno che si fa un acido o
chissà quali pastiglie, la cocaina c’è ma è meno diffusa, almeno al
montaggio. Se sali di grado la musica cambia. L’hashish è diffuso tra i
giovani, ma si fuma soprattutto nelle pause. Chi assume sostanze si
riconosce per quel particolare stato di euforia che lo prende: ti
accorgi che dopo una pausa il tuo compagno di lavoro ha cambiato stato
d’animo». 2.800 dipendenti, la maggioranza impegnati nello stabilimento
di Maranello e una piccola parte alla Scaglietti di Modena dove si
saldano le scocche. Alla Ferrari si costruiscono anche i motori e si
verniciano le scocche per la Maserati. «Il settore Corse, qualche
centinaia di dipendenti, fa storia a sé. Ma nella produzione di serie
il lavoro e la sua intensità, Maranello non è poi così diverso da
Mirafiori. Così come il salario base che si aggira intorno ai 1.100
euro, a cui vanno aggiunti il premio di risultato (un buon contratto
integrativo) e l’eventuale lavoro notturno o straordinario. In alcune
aree come il montaggio dove si lavora su tre turni, l’80% dei
dipendenti viene da sud. Questi ragazzi vengono su carichi di
entusiasmo, prima di accorgersi che la fatica è tanta, i soldi pochi e
la vita come gli affitti è carissima. Rapidamente arriva la
disillusione, la frustrazione. Negli ultimi anni l’uso di sostanze è
aumentato in diverse aree della produzione, soprattutto tra le ditte
terze e durante il turno di notte. Il mercato per le rosse va alla
grande, cresce la produzione e nell’arco di un paio d’anni la Ferrari
prevede di estendere i tre turni su tutto lo stabilimento. Intanto
aumenta la richiesta di lavoro straordinario. Mentre uno della mia
generazione si è battuto e si batte per le otto ore, vedi dei ragazzi
che fanno la fila per ottenere qualche ora di straordinario, al punto
che i capi si permettono di discriminare, a te sì e a te no, dipende
dalla dedizione; e così fanno vivere le ore di lavoro in più come una
concessione benevola e non come un carico aggiuntivo di sfruttamento»,
dice sconsolato un operaio anziano che aggiunge: «Vedo ragazzi
intimiditi a cui viene annullata la personalità, per loro il lavoro
significa soltanto reddito. Allora capisci anche perché fanno gli
straordinari o chiedono di lavorare di notte, per guadagnare e spendere
di più. E si diffonde la droga con tutto quel che comporta, spaccio
compreso».
La politica delle assunzioni massicce dal Mezzogiorno ha
la conseguenza inevitabile di ridurre progressivamente il tasso di
sindacalizzazione. E può anche succedere che la Fiom, l’organizzazione
ampiamente maggioritaria in Ferrari, venga sconfitta a un referendum
sulla turistica: «Vince chi punta tutto sui soldi, alla faccia della
condizione lavorativa». (3/continua)

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