Come ti muovi ti impasticco

Forse qualcuno avrà già
sentito parlare del disease mongering  

Mauro Croce, Gian Paolo Di Loreto
Forse qualcuno
avrà già sentito parlare del disease mongering . E’ una
strategia utilizzata dall’industria farmaceutica per incrementare gli
utili attraverso una serie di specifiche azioni, ad esempio
indirizzare l’attenzione clinica e di ricerca su patologie croniche e
di forte diffusione (con buona pace delle persone affette da malattie
rare il cui "poco mercato" non merita grandi investimenti),
abbassando i livelli-soglia di rischio, ma alzando quelli di
redditività di farmaci che non devono essere somministrati ai
fini della guarigione, ma per mantenere gli assuntori "sotto
cura e sotto controllo" praticamente per tutta la vita.
Ma
non è sufficiente abbassare le soglie di rischio. Ecco che
allora ciò che sino a qualche anno fa era considerato normale
ora viene considerato patologico, e pertanto vengono individuate
"nuove malattie". La lista è lunghissima, sino a
contemplare la "sindrome delle gambe irrequiete", sindrome
che necessita prima di essere "scoperta", quindi di essere
combattuta tramite l’individuazione di un farmaco ad hoc ed infine,
inevitabilmente, richiede di trovare "pazienti" affetti da
tale sindrome. Non è un caso che gli investimenti in marketing
da parte delle aziende farmaceutiche si rivelino di molto superiori a
quelli in ricerca.
Ancora, desta una notevole impressione la
recente notizia che un farmaco come il Prozac non risulterebbe
efficace nei casi di depressione lieve, impressione che si accentua
al sospetto che tale mancanza di efficacia possa derivare non tanto
da un’azione farmacologicamente carente, quanto dalla scadenza del
brevetto (con la conseguenza che le case farmaceutiche tenderebbero a
svalutare il Prozac per poter poi lanciare sul mercato altri
brevetti).
Fatto sta che leggendo come patologiche numerose
manifestazioni della vita normale e facendo leva sulla paura della
morte, si incentiva il continuo ricorso a strutture sanitarie e al
sovratrattamento farmacologico di ogni sintomo da parte di un
cittadino stretto fra il timore della malattia e l’aspettativa nel
potere salvifico della medicina.
Di converso, anche comportamenti
e scelte (o forse non scelte…) soggettive ben si prestano a
suscitare un certo interesse da parte della medicina e delle aziende
farmaceutiche: eccessi o inibizioni sul piano sessuale, nell’uso di
internet, nel lavoro, nel gioco d’azzardo, nelle relazioni e negli
affetti, negli acquisti ed anche nello sport diventano sempre più
punto di osservazione, di studio, di interesse da parte della
medicina, ed eccoli quindi inseriti a pieno diritto nelle "nuove
patologie" o, nello specifico, nelle "nuove sindromi da
addiction", sempre più consone ad inglobare momenti ed
eccessi tipici della vita di ognuno di noi. L’operazione è
semplice. Il primo passo sta nel creare un allarme sociale (nuove
malattie, nuove sindromi di cui ognuno potenzialmente è a
rischio); in secondo luogo ci si appropria di questo campo (questi
comportamenti sono individuati, spiegati e di dominio della
medicina), in terzo luogo vengono catalogati (inserimento nei manuali
diagnostici) e finalmente giunge la rassicurazione che sono in corso
ricerche, sono o saranno a disposizione farmaci, linee guida.
Questo
non significa che il problema del rischio, dei costi sociali, delle
problematiche aperte da tali questioni non esistano. Anzi. Piuttosto
si pone la questione se tali problemi siano di competenza della
medicina o meno. Come nota infatti Eliot Freidson nel saggio La
dominanza medica «la professione medica si arroga il diritto di
decidere cosa sia la malattia e a che cosa sia collegata, nonostante
la sua incapacità di trattarla efficacemente. Questo ci
dimostra che l’acquisizione di importanza sociale di un valore come
la salute va di pari passo con la nascita di un veicolo per questo
valore, una categoria organizzata di professionisti che ne reclamano
la giurisdizione. Una volta ottenuta ufficialmente tale
giurisdizione, la professione è pronta a creare i propri
concetti specializzati per definire che cosa sia la malattia. Benché
la medicina non sia indipendente dalla società in cui opera,
nel momento in cui diventa il veicolo di valori sociali, giunge ad
assumere un ruolo fondamentale nella formazione e nella definizione
dei significati sociali che tali valori contengono. Resta da vedere
quale sia la portata di questo ruolo».

Non punire, ma
sedurre
Quest’ultima notazione ci introduce all’interno di un più
ampio piano di lettura del fenomeno, che tenta di dar conto della
medicalizzazione della devianza come processo diffuso, nonché
chiave di volta per comprendere l’affermazione di un certo potere
sottile, discreto e pervasivo. È quello che ci rammenta Michel
Foucault in Sorvegliare e punire evidenziando il fatto che proprio su
strumenti come l’esame, su modalità operative quali la
catalogazione, la classificazione, la documentazione e
l’individualizzazione, si sia fondato il passaggio verso un certo
modello di società del controllo e della disciplina. Questi
elementi, che trovarono terreno di coltura proprio in ambito clinico
(cioè in quei "laboratori" che sono gli ospedali del
XVIII secolo), non limiteranno poi il proprio raggio d’azione al
manicomio e all’ospedale, ma si riveleranno ben funzionali alla
gestione ed organizzazione di altre comunità "necessarie"
e totalizzanti, quali sicuramente la caserma, il carcere e per molti
versi la fabbrica.
Da qui, dalle istituzioni totali, il sistema
"medicalizzante" troverà poi progressiva diffusione
nel resto della società, rendendo sistematiche le procedure di
normalizzazione e controllo fino a farne la spina dorsale di un
preciso modello di regolazione socioeconomico e politico o, per
meglio dire, biopolitico.
Ma sarebbe ingenuo pensare oggi che la
diffusione della medicalizzazione, anche di quella della devianza,
sia rimasta ancorata ad un mero presupposto disciplinare ed
organizzativo. Prova ne sia che se da un lato vi è ormai la
stabile acquisizione che il processo di medicalizzazione collettiva
della vita (ben prima che della devianza!) sia un processo necessario
ed ineluttabile, in quanto rispondente ad esigenze di carattere
medico-sociale (tutt’altro che scevre, come sopra rimarcato, da
pressioni economiche), dall’altro i processi di individualizzazione
che hanno avuto luogo in occidente negli ultimi 30-40 anni non hanno
affatto sgretolato i dispositivi di controllo basati sulla
medicalizzazione, piuttosto li hanno sottoposti ad una certa
mutazione. L’individuo tardo-moderno o post-moderno, differenziato,
autonomizzato ed isolato, rappresenta difatti un "oggetto"
di attenzione ancor più esposto alle manipolazioni di un
potere mai così raffinato, in grado di esprimere controllo
sociale non tanto per il diretto ricorso a disciplinarità e
sanzioni, quanto attraverso la mirata stimolazione di desideri e la
incessante proposizione di modelli, all’interno dei quali l’input
alla salute ed al benessere diviene generale, inevitabile e doveroso
fondamento del principio di successo individuale.
A ciò si
aggiunga che questa volontarietà alla base dell’attuale
biopotere si raccorda perfettamente con la volontarietà
dell’accesso a certi benefici o servizi erogati proprio in quegli
ambiti bio-socio-tecnologici volti a regolare, organizzare e
monitorare il comportamento umano.
È chiaro, quindi, come
ciò che oggi si definisce come controllo non si focalizza su
pratiche costrittive, né su espressioni e comportamenti
oppressivi, ma nell’organizzazione e nella contestualizzazione di ciò
che è spesso progettato o addirittura desiderato da un libero
soggetto: nell’indicargli modelli di vita, di consumo, di
prestazione. Salvo poi ritenerlo malato se "non riesce a
controllarsi" nei consumi e negli eccessi. Salvo poi
stigmatizzarlo se "eccede". Salvo poi colpevolizzarlo se
non ricorre alle cure per il suo disturbo.
Il meccanismo opera in
particolare sul piano delle sostanze o dei comportamenti "non
illegali", dove il consumo è libero, non ostacolato o
spesso addirittura costruito attorno a comportamenti socialmente
incentivati, senza che tuttavia vengano minimamente messi in
discussione i modelli culturali e l’organizzazione sociale ed
economica che gravitano proprio attorno a questi consumi.
Ed è
a questo punto che intervengono i "saperi esperti" i quali,
come ha evidenziato sempre Foucault (vedi Tecnologie del sé ),
divengono di centrale importanza nei processi di normalizzazione che
partono dalla individuazione delle possibili buone condizioni di
salute e dalla definizione delle corrette regole di comportamento a
cui i soggetti sono chiamati a conformarsi. Non si tratta più
quindi di "sorvegliare e punire" (apparato che richiama
paranoici modelli ottocenteschi o modelli inapplicabili) ma di
prevenire e curare, preferibilmente all’interno di un approccio
riduzionista che si declina in prevalenza su un versante
biologico-individuale, riconducendo cioè l’essere umano ad una
"semplice questione somatica": ecco infatti che
quotidianamente sui giornali leggiamo come sia stato scoperto in un
qualche laboratorio il gene, il meccanismo biologico, il tratto
somatico di tutto ciò che ci dà fastidio negli altri o
che vogliamo giustificare in noi (la violenza, l’aggressività,
la tossicodipendenza), o che vogliamo cambiare o di cui ci
vergogniamo. Ed ecco allora la pillola – già anticipata e
pubblicizzata – che risolverà il problema, e che rappresenta
anche la chiusura di un cerchio già delineato.

Dal
peccato alla malattia
«Una volta rimosse etichette come
crimine e peccato, ciò che viene fatto al deviante è
per il suo bene, per aiutarlo invece che punirlo, anche se il
trattamento può, in alcune circostanze, rappresentare una
pratica restrittiva. Le opinioni del deviante non vengono tenute in
considerazione perché egli è considerato un profano
inesperto, privo della conoscenza specializzata o del distacco che
gli darebbero il diritto di fare sentire la sua voce» (la
descrizione è ancora di Freidson).
Il progressivo
slittamento di molti comportamenti considerati devianti,
incomprensibili, disturbanti dal dominio della Chiesa (è
peccato), a quello del Diritto (è reato), per giungere a
quello della Medicina (è malattia), comporta tuttavia i rischi
di un controllo più strisciante, più subdolo, la cui
sostanziale accettazione sociale garantisce spazi di manovra e di
legittimazione in territori prima stranieri. Se ieri un uomo doveva
essere pio e timorato di Dio, e quindi rispettoso delle leggi e delle
convenzioni, oggi l’ideale è quello di un uomo "sano"
e la salute (o la mancanza di essa) diventa il luogo ove scoprire e
svelare il peccato, la colpa o i propri limiti ed inadeguatezze: si
pensi ad esempio al "caso Viagra". Le "nuove sindromi"
sono costruite e definite da una algebrica sommatoria di più
criteri comportamentali che non si interrogano circa la comprensione
dei meccanismi, dei significati, dei vissuti, delle evoluzioni e dei
bisogni che tali "dipendenze" sembrano allo stesso tempo
circolarmente soddisfare e creare. I problemi e gli ostacoli che le
persone incontrano diventano, quindi, diagnosi e il processo prevede
la trasformazione e l’accettazione del passaggio da trasgressore a
malato.

Oltre la cura: la statistica "preventiva"
Ma
lo scenario si va frastagliando, e inizia a sorgere più di un
dubbio circa il fatto che la medicalizzazione della società in
generale, e la medicalizzazione della devianza in particolare,
governino da sole gli attuali processi di controllo sociale. Forse
non è un caso che le tendenze nel crime control e nel
contrasto alla devianza degli ultimi trenta anni abbiano via via
spostato l’attenzione dalle caratteristiche cliniche e sociali
dell’autore del delitto alle concrete modalità di commissione
dei reati ed alle situazioni ed al contesto fisico ove il reato viene
perpetrato.
Così come non è casuale l’emersione di
un approccio preventivo cosiddetto attuariale, volto ad operare su
una base quantitativa e probabilistica e tendente al controllo
tramite una valutazione anticipata del rischio, rinvenibile sia nelle
specifiche caratteristiche individuali del singolo soggetto, quanto
in quelle generali della classe o del gruppo di cui fa parte, secondo
un criterio preventivo, astratto e statistico che non ha più
alcun bisogno di quella finalità trattamentale o
risocializzante che accompagna, in buona parte, proprio certi
processi di medicalizzazione.
Sembrerebbe pertanto configurarsi
uno scenario tardo-moderno nel quale il biopotere sa muoversi ed
agire in modo fluido ed adattabile, utilizzando strumenti diversi in
base alle diverse caratteristiche dei soggetti da controllare: su
alcuni di essi può essere più efficace medicalizzare e
"trattare", oppure indurre e stimolare; su altri rimane
preferibile valutare il rischio ed escludere.

19/03/2008

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