La condizione del lavoratore nell’era post-industriale: produttore di beni e consumatore di stupefacenti

 

 

17-3-08

 

Intervista di Sabatino Annecchiarico con Francesca Coin* – da informationguerrilla.org

Il
consumo di sostanze stupefacenti ha precisamente un triplice scopo:
stimolare la produzione, manipolare l’essere umano per renderlo piu’
simile alla macchina e farlo diventare il piu’ possibile docile. Con
l’entrata della digitalizzazione nella produzione di beni, negli ultimi
decenni il mondo capitalista ha subito una trasformazione nella
produzione con alti profitti senza precedenti nella storia.

Allo
stesso tempo, si è verificato un aumento del consumo di sostanze
psicotrope e di alcol da parte dei lavoratori che producono questi
beni, realizzando con il proprio malessere gli alti profitti del
capitale. Francesca Coin, nel suo recente saggio “Il Produttore
Consumato. Saggio sul malessere dei lavoratori contemporanei” (Ed. Il
Poligrafo, Padova, 2006. €23,00) delinea questa trasformazione partendo
dalla constatazione
che, secondo la sociologia “ufficiale”
«Nell’era post-industriale i lavoratori non sono più il perno della
vita sociale. Essi non sono più al centro né delle fabbriche né delle
piazze. Il loro ruolo economico e politico è oramai marginale, e
parimenti poco importanti sono diventate le loro storie di vita. Ma, a
clamorosa smentita di una tale presunta marginalità, all’alba del terzo
millennio i lavoratori sono il bersaglio primo delle riforme economiche
e politiche del libero mercato, che avanza precisamente sulle schiene
della classe lavoratrice mondiale».

Nella
sua ricerca lei si sofferma in modo particolare sul crescente ricorso
di droghe che fanno i lavoratori, un uso in risposta alle difficoltà e
alle loro sofferenze che il mondo del lavoro infligge. Diversi studiosi
hanno già trattato questo argomento. Dov’è la novità della sua ricerca?

Fino ad oggi è stato trattato questo problema
prevalentemente in chiave psicologica, osservando il malessere dei
lavoratori come un male individuale. La novità di questo saggio è
l’approccio collettivo con cui ho affrontato questo malessere. Un
malessere inserito dentro il mondo stesso della produzione capitalista.

Lei
sostiene che questa produzione di beni è connessa, in modo
inestricabile, con la produzione di malessere di chi produce questi
beni. Da dove parte per sostenere queste affermazioni?

Nel mondo capitalista abbiamo un mercato del lavoro che richiede sempre
un maggiore sforzo da parte del lavoratore, sia nell’aumento delle ore
lavorative che nell’intensità propria del lavoro. Osservando i paesi in
cui le ore di lavoro variano tra 12 e 72 ore continuative, senza
interruzione, ad esempio quelle delle zone di libero scambio
commerciale del Centro e un Sud America, spesso le anfetamine sono
somministrate direttamente dal datore di lavoro con lo scopo di portare
a termine turni di lavoro massacranti. Si è passati da un assenteismo a
un iper-presenteismo sul posto di lavoro.

In Europa accade la stessa cosa?

Abbiamo in Europa le testimonianze dei sindacati inglesi, che ci fanno
sapere che la gran parte dei lavoratori inglesi hanno problemi di
tossicodipendenza e di alcolismo. In Italia la cosa non è molto
diversa. Si dice con leggerezza che la tossicodipendenza riguarda
prevalentemente i giovani. Giovani studenti: una generazione spesso
collegata con le stragi del sabato sera. La realtà è diversa. Il 70%
dei consumatori di droghe non è costituito da studenti bensì da
lavoratori dipendenti. C’è un forte malessere dei lavoratori in
fabbrica, i turnisti ad esempio, compensano questo malessere con l’uso
di droghe e farmaci. Questo fatto è dovuto a due bisogni effettivi
della produzione capitalistica: quello di lavorare sempre di più e
quello di consumare sempre di più. Da una parte c’è bisogno dell’
iperlavoro, il quale è in continua crescita, utile ad abbassare i costi
di produzione. Dall’altra c’è il bisogno di consumare quello che si
produce. Siamo paradossalmente in un’epoca della storia in cui la
possibilità di consumare è la più alta in assoluto: tanti beni a
disposizione. Ma nello stesso tempo, tale consumo non aiuta
l’emancipazione dei lavoratori, bensì principalmente la produttività
economica e l’obbedienza politica. Il consumo di sostanze stupefacenti
ha precisamente un triplice scopo: stimolare la produzione, manipolare
l’essere umano per renderlo più simile alla macchina e farlo diventare
il più possibile docile. Un esempio di tale “pacificazione” è il modo
in cui nel 1968 l’LSD fu somministrata in massa ai contestatori
nordamericani quale “antidoto all’attivismo politico”.

Alla luce di tutto ciò, come reagisce il sindacato in Italia?

In Italia il sindacato reagisce come può, nel senso che in un contesto
caratterizzato dalla decentralizzazione produttiva il sindacato è
sempre più stretto dalla necessità di garantire il posto di lavoro e
mantenere la capacità contrattuale del salario. Schiacciato tra queste
due realtà, il sindacato chiude un occhio a tutto il resto. Ed è così
che emerge un sindacato senza una autentica forza contrattuale, risorse
politiche o motivazioni per affrontare il disagio dei lavoratori.

Ci sono esempi che testimoniano questa debolezza sindacale?

Nell’inchiesta che ho fatto nella zona industriale del Nordest
d’Italia, di alta densità produttiva, volevo verificare quanti
lavoratori facessero uso di droghe o di antidepressivi. Di fronte alla
mia ricerca il sindacato si è tenuto in disparte, non ha preso una
posizione esplicita.

E le politiche dei governi, che ruolo hanno?

Le politiche dei nostri governi sono connesse all’economia dello Stato
e quindi soggette alle necessità di profitto della produzione
capitalistica. In quest’ottica essi fanno leggi che puntano sempre di
più alla precarietà e alla flessibilità del lavoro, invece che al
benessere dei lavoratori.

A questo punto la soluzione sfuma.

La soluzione al problema? No, non sfuma. La cosa che mi preme
sottolineare è che il benessere dei lavoratori non è marginale alla
lotta dei lavoratori stessi o del sindacato. È centrale. L’opposizione
collettiva è l’unica possibilità d’uscita da quella disperata ricerca
di auto-gratificazione dalle dipendenze. Come scriveva Jervis negli
anni settanta, la nevrosi operaia si sviluppa nella misura in cui
l’operaio non riesce ad inserire in una struttura collettiva di
protesta il proprio rifiuto, perché l’unica terapia è l’azione politica
dei lavoratori. in questo senso non c’è stato provvedimento in Italia
ed in Europa in cui il desiderio governativo di trasformare il lavoro
in un processo precario, flessibile e sottopagato non sia stato accolto
con una vera e propria lotta nelle piazze. Vi è stata una grande
risposta quando si è voluto cancellare l’articolo 18 dello Statuto dei
lavoratori. Ancora una volta sono stati gli stessi lavoratori a
mostrare la soluzione.

Lei fa riferimenti espliciti al coinvolgimento dei governi?

Se guardiamo il mercato delle droghe nel corso della storia vediamo che
spesso i governi occidentali sono stati implicati in un modo o in un
altro nella somministrazione di sostanze psicotrope alle popolazioni.
Se ci pensiamo, il consumo di massa di sostanze psicotrope è cominciato
con la rivoluzione industriale prima e con il colonialismo poi, quando
questo commercio era considerato non solo uno strumento vantaggioso dal
punto di vista economico, ma anche uno strumento di pacificazione
politica. Si pensi solo alla politica coloniale dell’impero britannico
nei confronti della Cina, o al colonialismo olandese e francese nei
confronti dell’Indonesia e del Vietnam, o al ruolo delle droghe
nell’aumentare la ferocità conquistatrice dell’esercito statunitense, o
allo smercio di massa di LSD tra i manifestanti di San Francisco negli
anni Sessanta per ridurne le istanze di mobilitazione politica. Nei
ghetti neri degli Stati Uniti, ancora una volta la risposta l’hanno
data i lavoratori, che hanno messo in atto una campagna di
mobilitazione e denuncia contro il governo nordamericano, dopo che per
decenni questo aveva facilitato la diffusione di droghe pesanti nei
ghetti così da rispondere al problema dell’elevata povertà delle inner
cities con lan criminalizzazione dei poveri.

Abbiamo
parlato del mondo di produzione capitalista, dove esiste un padrone,
che è il proprietario della produzione e dei lavoratori. Esistono
tuttavia esperienze di lavoro dove sono gli stessi lavoratori a gestire
la produzione senza i padroni proprietari. Un esempio di riferimento
sono le fabbriche occupate in Argentina. Secondo lei, qui accade la
stessa cosa? Si verificano gli stessi malesseri e lo stesso consumo di
droghe?

Non ho fatto un’accurata ricerca nelle
fabbriche recuperate in Argentina, ma ho visto che, laddove il
lavoratori si autorganizzano, laddove il lavoratori si realizzano come
persone nell’ambito della stessa produzione di beni, laddove i
lavoratori sono liberi di decidere, essi non hanno bisogno dei
psicofarmaci per poter lavorare. Per cui, quello che ho visto nelle
fabbriche in cui la dignità e la responsabilità del lavoratore diventa
protagonista della stessa produzione, il sogno del benessere dei
lavoratori non ha bisogno di appagarsi con le droghe.

*Sociologa e ricercatrice nell’Universita’ Ca’ Foscari di Venezia e presso la Georgia State University di Atlanta (USA)

A cura di Sabatino Annecchiarico

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