PSYCO BOOM

PSYCO BOOM

(Tratto da L'Espresso.it di
Agnese Codignola) Aumentano i consumi di medicine per combattere ansia
e depressione, attacchi di panico e disturbi alimentari. Al ritmo
dell'8 per cento l'anno. E si abbassa l'età di chi cerca nelle pillole
il rimedio contro le difficoltà della vita. Con molti rischi
Agli
italiani piacciono sempre di più. E aumentano i consumi: nel 2006,
l'aumento delle prescrizioni di antidepressivi ha superato dell'8 per
cento i già alti livelli del 2005, per un totale di 650 milioni di
euro. Come a dire, che agli italiani non importa niente dei molteplici
e autorevoli appelli alla prudenza indotti dall'emergere di alcuni
effetti collaterali anche gravi, e nonostante gli studi disponibili
dicano tutti la stessa cosa: gli antidepressivi dati in modo automatico
e senza una giusta terapia di supporto sono inutili. Anzi:
controproducenti.
Eppure, almeno in Italia, il marketing stravince
sulla cautela. Ed è riuscito, negli ultimi anni, a catturare pazienti
sempre più giovani: il depresso-tipo, insomma, non è più l'anziano o la
donna in menopausa o la persona di mezza età, comunque qualcuno che fa
i conti con le pene del tramonto della vita. No, proprio il contrario:
oggi a impasticcarsi è sempre più spesso il giovane che sta impostando
la sua attività lavorativa, che è sul punto di realizzare progetti, di
sposarsi o fare figli. È anche l'adolescente problematico o il bambino
con qualche difficoltà, magari di rendimento scolastico. E anche se,
dopo il boom del biennio 2001-2002 (vedi grafico), si è registrato un
calo nelle prescrizioni in età pediatrica, i dati sono preoccupanti:
nel 2006 sono state più che doppie rispetto a quelle del 2000.
Come
spiega Corrado Barbui, psichiatra dell'Università di Verona: "Un tempo
gli antidepressivi si prescrivevano soltanto nei casi di una certa
gravità, mentre oggi si consigliano per tutto, dagli attacchi di ansia
e di panico all'obesità, dai disturbi del comportamento alimentare a
tutto ciò che viene catalogato come ossessivo compulsivo, dalle
strategie per smettere di fumare ai disturbi dell'umore stagionali e
via discorrendo, anche se spesso non ci sono prove che dimostrino
l'efficacia di un certo farmaco in situazioni i cui contorni sono così
sfumati. E anche se tutti gli studi approdano alla medesima
conclusione: tranne che in situazioni molto gravi, in prima battuta
bisognerebbe ricorrere a una terapia psicologica o comportamentale,
molto più efficace del solo farmaco".
Tutta colpa delle pressioni
dell'industria? No. Imputati sono anche i servizi pubblici, carenti
nell'assistere coloro che ne hanno realmente bisogno. Ancora Barbui:
"Per instaurare una terapia psicologica o cognitivo-comportamentale ci
vuole una preparazione specialistica e, soprattutto, la possibilità di
stabilire un programma che duri nel tempo, spazi e degli operatori che
lo portino avanti e molto altro. Spesso non ci sono le risorse, e si
ricorre ai farmaci: basti dire che due terzi delle prescrizioni sono
fatte dai medici di famiglia, i quali non hanno né la formazione né la
concreta possibilità di instaurare una cura diversa".
In sintesi:
malinconici, vittime di un qualunque disagio e pseudo-depressi chiedono
aiuto al medico di base. Che non ci capisce un gran ché e prescrive il
farmaco. Magari il più nuovo. E non gli si può dare la croce addosso.
Perché ad aiutarlo non c'è nulla. Ad esempio non ci sono linee guida. È
vero, spiegano gli psichiatri, che per curare una persona che soffre di
un disagio mentale ci vogliono interventi complessi per i quali non c'è
una formula unica. Ma questo non significa che si debba procedere a
tentoni. Al contrario: si possono recepire i dati certi ottenuti in
sperimentazioni controllate e convalidate, e su quelli elaborare una
strategia.
In Gran Bretagna, dove la situazione non è molto migliore
rispetto all'Italia, si stanno muovendo in questa direzione: per
esempio, sono previsti finanziamenti per la valutazione di programmi di
counselling elettronico, visto che solo un depresso su quattro si
rivolge a uno specialista, e per l'analisi dello stigma sociale che
ancora circonda la malattia mentale, e fondi per il controllo degli
studi in corso, al fine di non disperdere energie. Non solo: il 4
luglio scorso, il Parlamento ha approvato una serie di provvedimenti
per migliorare l'assistenza e proteggere i minorenni da ogni forma di
accanimento farmacologico. il caso inglese dimostra che procedere con
un metodo scientifico si può, e solo facendolo si potranno realizzare
piani terapeutici che portino a risultati concreti, senza esporre i
pazienti a rischi inutili.
Perché pericoli ce ne sono: quello dei
rischi legati alla terapia farmacologica soprattutto con Ssri è uno dei
grandi temi che tiene banco sulla letteratura scientifica
internazionale degli ultimi mesi. Come spesso accade, infatti, via via
che nuove generazioni di depressi e di malati di vari disturbi
dell'umore si curano con i farmaci (solo i depressi in terapia
farmacologica, secondo l'Oms, sono 35 milioni in tutto il mondo)
vengono alla luce i lati più oscuri dei farmaci, e a quel punto si
cerca di correre ai ripari tamponando le falle con misure non sempre
efficaci.
Il dibattito che più agita le acque è quello sul supposto
aumento di rischio di suicidio tra i giovani al di sotto dei 24 anni
che assumono antidepressivi dell'ultima generazione, gli Ssri, la
classe del Prozac per intenderci. Ma la segnalazione non è l'unica.
Qualche settimana fa il 'New England Journal of Medicine' ha riportato
due studi sul rischio di malformazioni nei feti di donne che assumono
Ssri nel primo trimestre di gravidanza.
Questi allarmi confermano la
necessità assoluta di condurre studi più approfonditi prima di
introdurre molecole nuove sul mercato e, soprattutto, quella di
utilizzare i farmaci con grandi cautele. Ad aggravare la situazione,
poi, ci si mette la scarsa aderenza a tempi e dosi: una cura con
antidepressivi richiede almeno 20 giorni e ha effetti soddisfacenti se
viene prolungata per almeno sei mesi. Ma stando ai dati dell'Osmed,
circa il 50 per cento dei malati italiani interrompe il trattamento
entro 90 giorni dalla prima prescrizione, e oltre il 70 per cento nei
primi sei mesi.
Ecco allora il vero nocciolo dell'inquietudine che
genera negli addetti ai lavori l'abuso di Ssri: di questi farmaci si sa
poco, certo non si conosce per bene il meccanismo d'azione. Fanno
aumentare la concentrazione di serotonina, noradrenalina e dopamina
laddove ce n'è bisogno, cioè tra una cellula nervosa e l'altra, ma che
cosa questo significhi dal punto di vista molecolare è in gran parte
ignoto. Uno studio appena pubblicato su 'Pnas' ha dimostrato un fatto
inatteso, e cioè che gli antidepressivi Ssri agiscono sul recettore del
fattore di crescita vascolare-endoteliale, stimolando la formazione di
nuove connessioni nervose nella zona dell'ippocampo, e questa potrebbe
essere una spiegazione plausibile della latenza dell'effetto, ma i
riscontri sono scarsi e non convincenti fino in fondo e mancano quasi
del tutto nell'uomo, così come poco si sa delle basi genetiche della
malattia. E, stando così le cose, piena luce sugli effetti collaterali
di questi farmaci la fa l'esperienza, la fanno i milioni di persone che
li prendono. E giorno dopo giorno rischiano di scoprire qualche novità.

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