America Latina. Narcotraffico: un meccanismo di controllo sociale (ADUC)

Il commercio delle droghe illegali esiste da tanto tempo, ma e' a
partire dagli anni 70 del secolo scorso che e' diventato qualcosa di
piu' e di diverso da una semplice attivita' lucrativa. In quel periodo
ha cominciato a trasformarsi in un complesso meccanismo di controllo
sociale per volonta' dei grandi poteri. E come tutti i fenomeni
massicci scaturiti dal capitalismo, una volta messo in moto ha
acquisito dinamiche proprie, che pero' non sono riuscite a scalfire la
sua natura di dispositivo di controllo della societa'. Questo carattere
e' rimasto. In nome dell'ordine pubblico, della sicurezza sociale -e si
potrebbero aggiungere anche altre pompose dichiarazioni-, i poteri
effettivi usano le droghe illegali per giustificare le loro attivita'
repressive. 

Come
dice Charles Bergquist, citato da Chomsky nella sua opera Violence in Colombia 1990-2000:
"la politica antidroga degli Stati Uniti contribuisce in maniera reale
al controllo di un substrato sociale etnicamente definito ed
economicamente sfruttato dentro la nazione e, parimenti, serve ai suoi
interessi economici e di sicurezza all'estero".
Sembra ragionevole
pensare che, come una qualsiasi calamita' naturale, anche il flagello
del consumo di stupefacenti rappresenti un problema di cui gli Stati
devono farsi carico. E trattandosi di un problema sanitario,
sembrerebbe ovvio puntare alla prevenzione. Invece, vediamo che viene
affrontato sempre piu' dal lato repressivo. Di fatto, da un paio di
decenni e' diventato un problema politico-militare; per la strategia
globale del governo statunitense esso ha assunto un'importanza
capitale, e' la linea maestra del suo agire -o per lo meno cosi' viene
ufficialmente dichiarato. Le droghe illegali giocano un doppio ruolo in
questa strategia: da un lato rendono innocui certi strati di
popolazione o i soggetti non funzionali al sistema (la
tossicodipendenza allontana dalla realta' e dall'eventuale lotta
sociale); dall'altro, costituiscono un buon alibi per il controllo
poliziesco e militare. E' chiaro che se ci fosse un vero interesse a
risolvere l'enorme problema socio-sanitario e culturale rappresentato
dalle sostanze psicoattive, la cosa piu' logica da fare sarebbe -come
si e' fatto con l'alcol- autorizzarle in modo regolamentato, in altre
parole, depenalizzarle. Ma non succede. Eppure, in ogni parte del mondo
si levano voci equilibrate che spiegano come l'unica via per porre fine
alla violenza e a tutte le conseguenze nefaste di questi traffici sia
la legalizzazione. Persino le Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia
(FARC), nel marzo 2000 produssero un documento rimasto quasi
sconosciuto alla stampa, intitolato "Legalizzare il consumo della
droga, unica alternativa seria per eliminare il narcotraffico". Vi si
legge: "Il narcotraffico e' un fenomeno del capitalismo globalizzato e
dei gringos in primo luogo. Non e' un problema delle FARC. Noi
rifiutiamo il narcotraffico. E siccome il governo nordamericano usa
l'esistenza del narcotraffico come pretesto per la sua azione criminale
contro il popolo colombiano, lo esortiamo a legalizzare il consumo
degli stupefacenti. Cosi' si sopprimono alla radice i grandi guadagni
derivanti dall'illegalita' di questo commercio, cosi' si controlla il
consumo, si assistono clinicamente i tossicodipendenti e si liquida
finalmente questo cancro. A grandi mali, grandi rimedi".
Ma gli
Stati Uniti non ci sentono da quell'orecchio. La cosiddetta lotta al
narcotraffico e' in definitiva l'unico modo che permette alla
geostrategia di Washington d'intervenire la' dove gli interessa. O,
piu' esattamente, dove ha degli interessi o dove questi sono colpiti.
Lo dimostrano il Plan Colombia e le politiche nella regione
andina e nell'Asia Centrale, come in Afghanistan: dove ci sono risorse
da sfruttare -petrolio, gas, minerali strategici, acqua dolce, ecc.-
e/o focolai di resistenza popolare, ecco apparire il "demonio" del
narcotraffico. Una volta preparate le condizioni, grazie anche al
formidabile aiuto dei mezzi di comunicazione, si puo' passare agli
interventi militari -un passo pressoche' obbligato. Il tutto in nome
dei sacrosanti valori della civilta' occidentale (leggi: impresa
privata intenta ai suoi affari). Con la scusa di combattere un male di
dimensioni apocalittiche come appunto viene descrittto il
narcotraffico, simile al "comunismo internazionale" con cui si
alimento' la paranoia collettiva durante la Guerra Fredda o all'attacco
al "fondamentalismo islamico" e al terrorismo a partire dal golpe
mediatico dell'11 settembre 2001, i motivi di una militarizzazione
globale assoluta sono serviti. Grazie a loro, il governo degli Stati
Uniti puo' fare in pratica cio' che vuole, con assoluta impunita':
intervenire, sequestrare in qualunque parte del mondo sospetti
narcotrafficanti e terroristi, dichiarare guerre preventive. In questo
senso il narcotraffico si rivela un grandioso strumento di controllo
sociale.
Che fare dunque? All'interno di un capitalismo globalizzato
non c'e' molto da fare. Se il demonio e' stato creato per tenere a bada
la protesta sociale, e' molto difficile, per non dire impossibile,
opporre un contromessaggio. Cio' significa che il narcotraffico sia
buono o desiderabile? Ovviamente no. Pero' se noi restiamo fermi a
questa bugia, siamo condannati a muoverci in un ambito creato
dall'imperialismo. Solo denunciando la menzogna possiamo aspirare a
ridurre un po' le macchinazioni perverse in gioco. Ma e' chiaro che e'
solo cambiando lo scenario globale che si potra' smontare la menzogna.

Tratto da un lungo articolo di Marcelo Colussi, saggista e scrittore italo-argentino, pubblicato su argenpress.info (traduzione di Rosa a Marca)

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