inchiesta Sata di Melfi, dal «prato verde» alla tossicodipendenza
Un po’ di coca e il turno se ne vola via
Nello stabilimento gioiello della Fiat si
«tira» per reggere i ritmi del Tmc2. Ma la cocaina detta anche tutti i
tempi della vita e permette un commercio che per molti consumatori si
trasforma in un bel business
«tira» per reggere i ritmi del Tmc2. Ma la cocaina detta anche tutti i
tempi della vita e permette un commercio che per molti consumatori si
trasforma in un bel business
Loris Campetti
Melfi (Potenza)
All’inizio era il «prato verde», messi di
grano a perdita d’occhio nella straordinaria piana di San Nicola. Il
grano ha lasciato il posto allo stabilimento Fiat-Sata di Melfi e la
collina che si arrampica verso il paese è ferita da una strada
costruita tutta in sopraelevata. Quando venne inaugurata la fabbrica,
nel ’94, speranze di emancipazione e retorica postdemocristiana si
mescolarono in una narrazione inedita in questa terra lucana: arriva il
capitalismo serio, si può uscire da una povertà contadina dominata per
decenni dal paternalismo di Emilio Colombo. Arriva l’industria, arriva
il progresso. Il vecchio applaudiva al passaggio dei nuovi padrini:
«Romito, salutateci Agnello», aveva scritto su un cartello ripreso da
cento telecamere e alla Fiat veniva concesso tutto, dalla deroga al
divieto del lavoro notturno per le donne a una rivisitata forma di
gabbie salariali che condannavano i futuri operai a guadagnare meno dei
loro compagni di Mirafiori e a lavorare di più.
«Prato verde»
chiamarono lo stabilimento di San Nicola. Perché nasceva dal nulla (il
grano, si sa, è nulla) e nell’assenza di memoria dell’industria e del
conflitto. Ci sono voluti 10 anni esatti perché gli operai di Melfi
esplodessero decretando la fine della pace sociale, per 21 giorni
bloccarono i cancelli, ressero alle cariche della polizia e ruppero un
isolamento che inutilmente, in tanti nella politica, nei media e
persino nei sindacati avevano cercato di costruire intorno ai nuovi
briganti in tuta blu. Vinsero, con il sostegno quasi solitario della
Fiom, diventarono maggiorenni conquistando diritti che altri, in altre
stagioni, avevano conquistato e che ora, tutti insieme, rischiano di
perdere di nuovo.
Quasi 15 anni dopo la nascita, Melfi è uno degli
stabilimenti di punta della Fiat. 5.300 dipendenti diretti, 10 mila con
l’indotto. Gli operai arrivano a San Nicola ogni mattina, pomeriggio e
notte da tutti i paesi della Basilicata, dal nord della Puglia e in
parte dalla Campania. Ore e ore di pullman o di macchina, centinaia di
incidenti stradali con tanti morti e feriti accumulati in 15 anni di
pendolariato. Anche qui, come alla Sevel in Val di Sangro, lavora una
classe operaia molto giovane che spesso non riesce a reggere i ritmi
ossessivi della fabbrica modello, come testimonia un turnover molto
alto. Anche qui, come alla Sevel, impazza la cocaina. Mentre ci
lasciamo alle spalle la piana e il paese viaggiando verso Potenza, un
delegato Fiom senza nome ci racconta la «normalita» del consumo e dello
spaccio lungo le linee di montaggio – pardon, le Ute, un acronimo che
sta per Unità produttive elementari che viaggiano sui ritmi della
famigerata metrica Tmc2, responsabile di strappi, ernie, tunnel
carpali, tendiniti. «La cocaina circola in fabbrica dall’inizio, ma
solo da pochi anni ha assunto dimensioni di massa. Un carrellista che
lavora nella mia Ute vende una quantità di dosi incredibili agli altri
operai, ai capi, ai vigilanti che tirano da matti, alle donne. Lo
spaccio è quotidiano come il consumo, ma il venerdì e prima delle
vacanze il volume degli affari va alle stelle perché vengono acquistate
le dosi per il sabato sera in discoteca, o per le ferie. Il mio amico
carrellista prima di Natale ha tirato su 15 mila euro, in poco tempo si
è fatto casa». Ci si droga anche dentro la fabbrica? «Gli operai –
risponde – si fanno durante le pause, li riconosci perché riprendono il
lavoro eccitati, tirano su col naso, è una specie di tic, e per una
mezz’ora producono come pazzi, poi si danno una calmata. All’inizio
sono solo consumatori saltuari, ma quando prendono il vizio si
trasformano in piccoli spacciatori per pagarsi la dose. Le canne se le
fanno direttamente sulla Ute: sentissi che profumo…».
Droga di sostegno
I
prezzi della cocaina si aggirano tra i 70 e i 100 euro a grammo, i
soliti 20-25 euro a quartino. Arriva soprattutto da Foggia portata dai
soliti camionisti che riforniscono la fabbrica di pezzi, componenti e
sogni di gloria, o di fuga che dir si voglia. «C’è anche qualcuno che
si buca – continua il racconto del nostro amico delegato – e spesso
viene aiutato dall’azienda a recarsi qualche periodo in comunità per
tentare di disintossicarsi». Perché si drogano? «Anni di lavoro in
questa fabbrica ti spompano. Il ritmo è stressante, i viaggi quotidiani
per raggiungere o lasciare il lavoro fanno il resto e la vita nei paesi
è banale, noiosa. C’è chi si fa per reggere lo stress, ma spesso le
motivazioni sono altre: per stare bene con gli amici, per stare bene
con la moglie o il marito. Molti si portano la coca a casa e fanno
sniffare anche la moglie per scopare meglio». Vuol dire che con gli
amici si sta male senza farsi? E che non si riesce a divertirsi in
discoteca o a letto senza l’uso di cocaina? Il delegato scuote le
spalle, e va avanti nel suo racconto. Insiste sul legame con il sesso:
«Quando tirano, anche in fabbrica, non li ferma più nessuno. Qui si
dice «inculare la formica» quando sei preso dal raptus e ti senti
Rambo, e succede che il tuo compagno di lavoro, un po’ per gioco e un
po’ no, venga a toccarti il culo, non avendo una donna a portata di
mano». Tra i consumatori ci sono anche iscritti al sindacato? «Ce ne
sono, ce ne sono. Anche delegati. Uno dell’Ugl è stato anche bastonato
perché era in ritardo con il pagamento allo spacciatore. I delegati
Fiom? Qualche spinello, quello tutti. Sì, qualcuno usa anche la
cocaina. La maggior parte dei consumatori – cambia discorso – è sposato
e ha figli». Qual è la percentuale dei cocainomani? «C’è chi dice il
40%, chi corregge la cifra al rialzo: uno su due».
Stress, noia,
sesso, voglia di essere diverso anche se poi finisce che sei
esattamente uguale a tutti gli altri tuoi coetanei. «Di notte c’è meno
controllo ma si sniffa in tutti i turni. In questa fabbrica si può
comprare fumo, coca, eroina ma anche perizoma, canottiere,
elettrodomestici. Tutti sanno nessuno parla. Per paura, per
convenienza, per quieto vivere». In realtà c’è chi parla: i blitz
dell’antidroga fuori dai cancelli, sui piazzali dello stabilimento,
finiscono spesso con arresti, dunque le spiate non mancano. Chi viene
pizzicato con le mani nella farina viene spinto dall’azienda a
dimettersi, oppure viene degradato e spostato in altre unità, «è
successo recentemente a un quarto livello del montaggio». Dalla lotta
vittoriosa dei 21 giorni, Michele è assessore di Rifondazione alle
politiche sociali della provincia di Potenza, in distacco dalla Fiat di
Melfi dove fa l’operaio: «Ho assistito personalmente – ci racconta –
all’arresto di due operai sul pullman che ci riportava al paese dopo il
turno di notte: sono saliti in tre, uno in borghese dalla porta davanti
e due in divisa da quella posteriore per bloccare le uscite e sono
andati a colpo sicuro mettendo le manette a due operai, direttamente
sul pullman. Per fortuna quella volta non avevano roba con sé e sono
stati rilasciati». In qualche caso, però, scatta il licenziamento ma
sempre con motivazioni diverse: «Due ragazzi – ci racconta l’avvocato
Lina Grosso che segue le cause di lavoro per la Fiom – sono stati
licenziati per assenza ingiustificata, ma è noto che si trattava di due
tossicodipendenti. Noi avviamo la procedura ma in questi casi la Fiat
punta sempre a monetizzare, offrendo soldi a chi di soldi ha bisogno
come il pane, pur di non arrivare a sentenza. Per noi è difficile
convincere questi ragazzi a non accettare l’offerta, anche perché non
abbiamo alcuna certezza di vincere la causa». E questo è uno dei tanti
problemi a Melfi, dove le procedure d’urgenza (il 700 contro i
licenziamenti) durano mesi e mesi e le sentenze, quando ci si arriva,
rarissimamente sono a favore del sindacato. «C’è invece il caso di un
altro operaio, dipendente da alcol, che l’azienda metteva regolarmente
in postazioni per lui insostenibili. Una volta chiese di poter uscire
per andare in ospedale perché stava male. Lo bloccarono più volte
finché non riuscì a scappare determinando momenti di forte tensione.
Fuggì in automobile dopo una colluttazione con due capi in stato
confusionale ed ebbe un incidente d’auto. L’azienda l’ha licenziato e
noi abbiamo fatto causa. Abbiamo perso in primo grado e siamo andati in
appello, anche perché una perizia medica ha stabilito che non era in
grado di intendere e di volere per cui non è stato condannato in sede
penale. Dopo una seconda perizia che ha confermato la prima, la Fiat ha
proposto la transazione, cioè la monetizzazione per non arrivare a
sentenza. Il nostro assistito non ha accettato e ora aspettiamo il
verdetto del giudice». Finalmente, all’inizio della settimana è
avvenuta una cosa che ha ridato qualche speranza all’ufficio legale
della Fiom: il giudice di melfi ha accolto il ricorso contro il
licenziamento di un operaio Sata, Michele Passannante, «senza giusta
causa», dopo l’apertura di un’inchiesta giudiziaria in cui è indagato
per una presunta appartenenza all’area del terrorismo. Ora la Fiat
dovrà riaprirgli le porte della fabbrica e pagargli gli stipendi
arretrati.
Un’emergenza che dilaga
La Regione Basilicata si
occupa della Fiat di Melfi dal giorno della sua apertura, e lo fa
manifestando talvolta un certo grado di autonomia rispetto allo
strapotere esercitato nel territorio dalla multinazionale torinese. Ha
attivato incheste («magari la Procura fosse altrettanto attiva», ci
dicono gli avvocati che difendono gli operai) sul mutamento della vita
nei paesi in cui vivono i dipendenti Sata e dell’indotto, sugli
infortuni stradali stradali legati al pendolarismo, sul mobbing. La
Regione si è occupata anche di tossicodipenza in fabbrica. In
particolare c’è un’inchiesta curata dall’equipe della Cooperativa
Marcella sulla percezione delle droghe da parte dei lavoratori
dell’area industriale di Melfi: «Tutti sono concordi nell’affermare che
l’uso delle sostanze è gravemente nocivo per la salute», pur ritenendo
che alcune, come le droghe leggere, possano aumentare la capacità
lavorativa e insieme a quelle sintetiche migliorino la resistenza alla
fatica, a differenza di alcol e psicofarmaci. In molti pensano che
l’uso di droghe pesanti e sintetiche facciano correre rischi
all’interessato e ai compagni di lavoro. Sono al corrente del consumo
crescente di droghe in fabbrica, o per conoscenza diretta, o per lo
spaccio evidente, le siringhe abbandonate, i furti, l’eccesso di
assenze per malattia, qualche episodio di violenza. Solo il 21% degli
intervistati esclude che nella sua azienda si consumino sostanze
stupefacenti. Un dato allarmante su cui riflettere è segnalato da un
intervistato su due: chi si fa si infortuna di più. Il 50% sostiene che
chi si droga è «una persona normale».
L’altro dato che non deve
sorprendere è che il consumatore «non si ritiene tossicodipendente»
(44,9%). Per il 77,3% del campione, infine, «le imprese dovrebbero
avere un programma di lotta contro la droga».
Qualche mese fa, nel
terzo stabilimento meridionale della Fiat per importanza, quello di
Cassino, fu realizzato un video con un operaio intervistato di spalle
che raccontava il consumo di droga durante il turno di notte. Diceva
molte verità, e proponeva qualche certezza di troppo e troppo
politicamente corrette: ci si fa di cocaina solo per resistere a un
lavoro altrimenti insopportabile. E’ così, ma non è solo così. Ne
parleremo nelle prossime puntate. Finora abbiamo indagato solo grandi
fabbriche metalmeccaniche, anzi Fiat, perché è più facile stabilirvi
relazioni e perché il tasso di vent’enni è altissimo. Non si creda però
che si tratti di un fenomeno circoscritto a queste realtà. In tutti i
settori dell’industria e dei servizi il consumo della cocaina è
drammaticamente alto e crescente. Lo è nei lavori faticosi, come
nell’edilizia, nei lavori ripetitivi, in quelli che prevedono il
rapporto con il pubblico. Lo è soprattutto tra i giovani e i precari.
C’è chi pensa che ci sia un rapporto tra la diffusione delle droghe e
la riduzione dei conflitti sul lavoro. Ipotesi, naturalmente, tutte da
verificare.
(2/continua)
grano a perdita d’occhio nella straordinaria piana di San Nicola. Il
grano ha lasciato il posto allo stabilimento Fiat-Sata di Melfi e la
collina che si arrampica verso il paese è ferita da una strada
costruita tutta in sopraelevata. Quando venne inaugurata la fabbrica,
nel ’94, speranze di emancipazione e retorica postdemocristiana si
mescolarono in una narrazione inedita in questa terra lucana: arriva il
capitalismo serio, si può uscire da una povertà contadina dominata per
decenni dal paternalismo di Emilio Colombo. Arriva l’industria, arriva
il progresso. Il vecchio applaudiva al passaggio dei nuovi padrini:
«Romito, salutateci Agnello», aveva scritto su un cartello ripreso da
cento telecamere e alla Fiat veniva concesso tutto, dalla deroga al
divieto del lavoro notturno per le donne a una rivisitata forma di
gabbie salariali che condannavano i futuri operai a guadagnare meno dei
loro compagni di Mirafiori e a lavorare di più.
«Prato verde»
chiamarono lo stabilimento di San Nicola. Perché nasceva dal nulla (il
grano, si sa, è nulla) e nell’assenza di memoria dell’industria e del
conflitto. Ci sono voluti 10 anni esatti perché gli operai di Melfi
esplodessero decretando la fine della pace sociale, per 21 giorni
bloccarono i cancelli, ressero alle cariche della polizia e ruppero un
isolamento che inutilmente, in tanti nella politica, nei media e
persino nei sindacati avevano cercato di costruire intorno ai nuovi
briganti in tuta blu. Vinsero, con il sostegno quasi solitario della
Fiom, diventarono maggiorenni conquistando diritti che altri, in altre
stagioni, avevano conquistato e che ora, tutti insieme, rischiano di
perdere di nuovo.
Quasi 15 anni dopo la nascita, Melfi è uno degli
stabilimenti di punta della Fiat. 5.300 dipendenti diretti, 10 mila con
l’indotto. Gli operai arrivano a San Nicola ogni mattina, pomeriggio e
notte da tutti i paesi della Basilicata, dal nord della Puglia e in
parte dalla Campania. Ore e ore di pullman o di macchina, centinaia di
incidenti stradali con tanti morti e feriti accumulati in 15 anni di
pendolariato. Anche qui, come alla Sevel in Val di Sangro, lavora una
classe operaia molto giovane che spesso non riesce a reggere i ritmi
ossessivi della fabbrica modello, come testimonia un turnover molto
alto. Anche qui, come alla Sevel, impazza la cocaina. Mentre ci
lasciamo alle spalle la piana e il paese viaggiando verso Potenza, un
delegato Fiom senza nome ci racconta la «normalita» del consumo e dello
spaccio lungo le linee di montaggio – pardon, le Ute, un acronimo che
sta per Unità produttive elementari che viaggiano sui ritmi della
famigerata metrica Tmc2, responsabile di strappi, ernie, tunnel
carpali, tendiniti. «La cocaina circola in fabbrica dall’inizio, ma
solo da pochi anni ha assunto dimensioni di massa. Un carrellista che
lavora nella mia Ute vende una quantità di dosi incredibili agli altri
operai, ai capi, ai vigilanti che tirano da matti, alle donne. Lo
spaccio è quotidiano come il consumo, ma il venerdì e prima delle
vacanze il volume degli affari va alle stelle perché vengono acquistate
le dosi per il sabato sera in discoteca, o per le ferie. Il mio amico
carrellista prima di Natale ha tirato su 15 mila euro, in poco tempo si
è fatto casa». Ci si droga anche dentro la fabbrica? «Gli operai –
risponde – si fanno durante le pause, li riconosci perché riprendono il
lavoro eccitati, tirano su col naso, è una specie di tic, e per una
mezz’ora producono come pazzi, poi si danno una calmata. All’inizio
sono solo consumatori saltuari, ma quando prendono il vizio si
trasformano in piccoli spacciatori per pagarsi la dose. Le canne se le
fanno direttamente sulla Ute: sentissi che profumo…».
Droga di sostegno
I
prezzi della cocaina si aggirano tra i 70 e i 100 euro a grammo, i
soliti 20-25 euro a quartino. Arriva soprattutto da Foggia portata dai
soliti camionisti che riforniscono la fabbrica di pezzi, componenti e
sogni di gloria, o di fuga che dir si voglia. «C’è anche qualcuno che
si buca – continua il racconto del nostro amico delegato – e spesso
viene aiutato dall’azienda a recarsi qualche periodo in comunità per
tentare di disintossicarsi». Perché si drogano? «Anni di lavoro in
questa fabbrica ti spompano. Il ritmo è stressante, i viaggi quotidiani
per raggiungere o lasciare il lavoro fanno il resto e la vita nei paesi
è banale, noiosa. C’è chi si fa per reggere lo stress, ma spesso le
motivazioni sono altre: per stare bene con gli amici, per stare bene
con la moglie o il marito. Molti si portano la coca a casa e fanno
sniffare anche la moglie per scopare meglio». Vuol dire che con gli
amici si sta male senza farsi? E che non si riesce a divertirsi in
discoteca o a letto senza l’uso di cocaina? Il delegato scuote le
spalle, e va avanti nel suo racconto. Insiste sul legame con il sesso:
«Quando tirano, anche in fabbrica, non li ferma più nessuno. Qui si
dice «inculare la formica» quando sei preso dal raptus e ti senti
Rambo, e succede che il tuo compagno di lavoro, un po’ per gioco e un
po’ no, venga a toccarti il culo, non avendo una donna a portata di
mano». Tra i consumatori ci sono anche iscritti al sindacato? «Ce ne
sono, ce ne sono. Anche delegati. Uno dell’Ugl è stato anche bastonato
perché era in ritardo con il pagamento allo spacciatore. I delegati
Fiom? Qualche spinello, quello tutti. Sì, qualcuno usa anche la
cocaina. La maggior parte dei consumatori – cambia discorso – è sposato
e ha figli». Qual è la percentuale dei cocainomani? «C’è chi dice il
40%, chi corregge la cifra al rialzo: uno su due».
Stress, noia,
sesso, voglia di essere diverso anche se poi finisce che sei
esattamente uguale a tutti gli altri tuoi coetanei. «Di notte c’è meno
controllo ma si sniffa in tutti i turni. In questa fabbrica si può
comprare fumo, coca, eroina ma anche perizoma, canottiere,
elettrodomestici. Tutti sanno nessuno parla. Per paura, per
convenienza, per quieto vivere». In realtà c’è chi parla: i blitz
dell’antidroga fuori dai cancelli, sui piazzali dello stabilimento,
finiscono spesso con arresti, dunque le spiate non mancano. Chi viene
pizzicato con le mani nella farina viene spinto dall’azienda a
dimettersi, oppure viene degradato e spostato in altre unità, «è
successo recentemente a un quarto livello del montaggio». Dalla lotta
vittoriosa dei 21 giorni, Michele è assessore di Rifondazione alle
politiche sociali della provincia di Potenza, in distacco dalla Fiat di
Melfi dove fa l’operaio: «Ho assistito personalmente – ci racconta –
all’arresto di due operai sul pullman che ci riportava al paese dopo il
turno di notte: sono saliti in tre, uno in borghese dalla porta davanti
e due in divisa da quella posteriore per bloccare le uscite e sono
andati a colpo sicuro mettendo le manette a due operai, direttamente
sul pullman. Per fortuna quella volta non avevano roba con sé e sono
stati rilasciati». In qualche caso, però, scatta il licenziamento ma
sempre con motivazioni diverse: «Due ragazzi – ci racconta l’avvocato
Lina Grosso che segue le cause di lavoro per la Fiom – sono stati
licenziati per assenza ingiustificata, ma è noto che si trattava di due
tossicodipendenti. Noi avviamo la procedura ma in questi casi la Fiat
punta sempre a monetizzare, offrendo soldi a chi di soldi ha bisogno
come il pane, pur di non arrivare a sentenza. Per noi è difficile
convincere questi ragazzi a non accettare l’offerta, anche perché non
abbiamo alcuna certezza di vincere la causa». E questo è uno dei tanti
problemi a Melfi, dove le procedure d’urgenza (il 700 contro i
licenziamenti) durano mesi e mesi e le sentenze, quando ci si arriva,
rarissimamente sono a favore del sindacato. «C’è invece il caso di un
altro operaio, dipendente da alcol, che l’azienda metteva regolarmente
in postazioni per lui insostenibili. Una volta chiese di poter uscire
per andare in ospedale perché stava male. Lo bloccarono più volte
finché non riuscì a scappare determinando momenti di forte tensione.
Fuggì in automobile dopo una colluttazione con due capi in stato
confusionale ed ebbe un incidente d’auto. L’azienda l’ha licenziato e
noi abbiamo fatto causa. Abbiamo perso in primo grado e siamo andati in
appello, anche perché una perizia medica ha stabilito che non era in
grado di intendere e di volere per cui non è stato condannato in sede
penale. Dopo una seconda perizia che ha confermato la prima, la Fiat ha
proposto la transazione, cioè la monetizzazione per non arrivare a
sentenza. Il nostro assistito non ha accettato e ora aspettiamo il
verdetto del giudice». Finalmente, all’inizio della settimana è
avvenuta una cosa che ha ridato qualche speranza all’ufficio legale
della Fiom: il giudice di melfi ha accolto il ricorso contro il
licenziamento di un operaio Sata, Michele Passannante, «senza giusta
causa», dopo l’apertura di un’inchiesta giudiziaria in cui è indagato
per una presunta appartenenza all’area del terrorismo. Ora la Fiat
dovrà riaprirgli le porte della fabbrica e pagargli gli stipendi
arretrati.
Un’emergenza che dilaga
La Regione Basilicata si
occupa della Fiat di Melfi dal giorno della sua apertura, e lo fa
manifestando talvolta un certo grado di autonomia rispetto allo
strapotere esercitato nel territorio dalla multinazionale torinese. Ha
attivato incheste («magari la Procura fosse altrettanto attiva», ci
dicono gli avvocati che difendono gli operai) sul mutamento della vita
nei paesi in cui vivono i dipendenti Sata e dell’indotto, sugli
infortuni stradali stradali legati al pendolarismo, sul mobbing. La
Regione si è occupata anche di tossicodipenza in fabbrica. In
particolare c’è un’inchiesta curata dall’equipe della Cooperativa
Marcella sulla percezione delle droghe da parte dei lavoratori
dell’area industriale di Melfi: «Tutti sono concordi nell’affermare che
l’uso delle sostanze è gravemente nocivo per la salute», pur ritenendo
che alcune, come le droghe leggere, possano aumentare la capacità
lavorativa e insieme a quelle sintetiche migliorino la resistenza alla
fatica, a differenza di alcol e psicofarmaci. In molti pensano che
l’uso di droghe pesanti e sintetiche facciano correre rischi
all’interessato e ai compagni di lavoro. Sono al corrente del consumo
crescente di droghe in fabbrica, o per conoscenza diretta, o per lo
spaccio evidente, le siringhe abbandonate, i furti, l’eccesso di
assenze per malattia, qualche episodio di violenza. Solo il 21% degli
intervistati esclude che nella sua azienda si consumino sostanze
stupefacenti. Un dato allarmante su cui riflettere è segnalato da un
intervistato su due: chi si fa si infortuna di più. Il 50% sostiene che
chi si droga è «una persona normale».
L’altro dato che non deve
sorprendere è che il consumatore «non si ritiene tossicodipendente»
(44,9%). Per il 77,3% del campione, infine, «le imprese dovrebbero
avere un programma di lotta contro la droga».
Qualche mese fa, nel
terzo stabilimento meridionale della Fiat per importanza, quello di
Cassino, fu realizzato un video con un operaio intervistato di spalle
che raccontava il consumo di droga durante il turno di notte. Diceva
molte verità, e proponeva qualche certezza di troppo e troppo
politicamente corrette: ci si fa di cocaina solo per resistere a un
lavoro altrimenti insopportabile. E’ così, ma non è solo così. Ne
parleremo nelle prossime puntate. Finora abbiamo indagato solo grandi
fabbriche metalmeccaniche, anzi Fiat, perché è più facile stabilirvi
relazioni e perché il tasso di vent’enni è altissimo. Non si creda però
che si tratti di un fenomeno circoscritto a queste realtà. In tutti i
settori dell’industria e dei servizi il consumo della cocaina è
drammaticamente alto e crescente. Lo è nei lavori faticosi, come
nell’edilizia, nei lavori ripetitivi, in quelli che prevedono il
rapporto con il pubblico. Lo è soprattutto tra i giovani e i precari.
C’è chi pensa che ci sia un rapporto tra la diffusione delle droghe e
la riduzione dei conflitti sul lavoro. Ipotesi, naturalmente, tutte da
verificare.
(2/continua)