Quanto tira la classe operaia (da Il Manifesto)

Inchiesta
Quanto tira la classe operaia
La cocaina va a ruba nelle fabbriche tra i più giovani. Prima puntata
Alla
Sevel in Val di Sangro un operaio su due consuma sostanze stupefacenti.
Lo stesso avviene dove l’età media è molto bassa. Si sniffa per reggere
«un lavoro e una vita di merda», perché così fan tutti, perché la
fabbrica non è più una comunità. Lo spaccio, i furti, i blitz. La
polvere bianca cambia il rapporto con il lavoro e il sindacato Al
montaggio ci sono stati casi di ragazze che si prostituivano per
pagarsi la dose. Adesso meno e solo quando finisce lo stipendio
Loris Campetti
Atessa (Chieti)

 «Il proletariato non è soltanto una classe
che soffre… La vergognosa situazione economica nella quale si trova
lo spinge irresistibilmente in avanti e lo incita a lottare per la sua
emancipazione definitiva». Così scriveva nel 1840 Friedrich Engels
nella sua magistrale «Indagine sulla condizione della classe operaia in
Inghilterra». E’ un’idea semplice quanto straordinaria quella di Engels
e Marx, che ha mosso centinaia di milioni di uomini e donne in tutto il
pianeta nel corso dei due secoli alle nostre spalle. Un’idea che ha
cambiato il mondo, emancipando grandi masse da una condizione di
miseria e subalternità attraverso la lotta di classe, il «motore della
storia».
A che punto è la storia, 170 anni dopo l’indagine di
Engels? Questa domanda ci è sorta spontanea al termine della nostra
inchiesta sul consumo e la diffusione delle droghe nelle fabbriche
italiane, e siamo andati a risfogliare i testi classici, memori delle
operaie tessili di Manchester poco più che bambine, costrette ad
avvelenarsi con «cherry, porto e caffè» per reggere un ritmo di lavoro
disumano per 15-16 ore al giorno. Nel 2008 ci sono realtà industriali
importanti in cui addirittura il 50% dei lavoratori si fa di cocaina e,
in misura minore, di eroina e di ogni sostanza capace di rendere più
tollerabile una «vita di merda», o meglio, di far sognare
un’improbabile fuga da essa. Di merda è il lavoro così come la
normalità delle relazioni in paesi privi di vita sociale, che concedono
ben poco alle speranze di futuro e di cambiamento, ci raccontano le
tute blu. Ci si fa per lavorare, per sballare, per fare l’amore. Ci si
fa alla catena di montaggio, in discoteca con gli amici, a letto con la
moglie per migliorare le prestazioni sessuali; poi arriva la dipendenza
e con essa lo spaccio per pagarsi la dose. Operai e operaie, capi e
sorveglianti, adescati in fabbrica da altri operai: una «pista» nei
cessi della fabbrica tanto per provare, l’esaltazione e il cuore che
batte a mille, l’adrenalina che all’inizio fa persino aumentare la
produzione, infine la consuetudine. Si lavora di notte per guadagnare
trecento euro in più, 1.400 invece di 1.100 euro buoni per affrontare
l’astinenza e la crisi della quarta settimana. La notte ci sono meno
controlli, «tu fai i picchi di produzione e i capi non ti rompono il
cazzo». Qualche ragazza può persino arrivare a prostituirsi per pagarsi
la dose, per fortuna casi sporadici.
Dall’officina al muretto
Dalla
fabbrica la droga arriva nei paesi di provenienza dei lavoratori in una
spirale perversa di cui, oltre alle forze dell’ordine, si occupano in
pochi: operatori sociali, Ser.T, qualche livello istituzionale. Le
aziende nascondono finché possono il fenomeno per salvare la faccia;
quando un caso esplode, magari dopo l’ennesimo blitz dei carabinieri,
scelgono la repressione attraverso il licenziamento o le «dimissioni
spontanee», a volte aiutano il recupero dei tossicodipendenti. I
sindacati, anch’essi, rimuovono, cosa che non riescono più a fare i
delegati il cui impegno rischia di cambiare natura, assorbito dal
lavoro di aiuto ai ragazzi finiti nella spirale. Ragazzi – anche
iscritti al sindacato, persino delegati – che non vivono, se non molto
parzialmente, il lavoro come emancipazione, come veicolo per costruirsi
un futuro, ma come pura fonte di introito per continuare a sniffare
coca o a iniettarsi eroina, oppure a fumarla «come fa un gruppo di
ragazze del mio turno», dice Arturo che da anni prova a disintossicarsi
e ci ricade ogni volta, nonostante il suo appuntamento quotidiano al
Ser.T di Pescara. Lui dal sindacato (è iscritto alla Fiom) si aspetta
«solo un aiuto per difendermi dai capi che mi ricattano, mi
perseguitano, mi danno giorni e giorni di sospensione per poi tenerli
nel cassetto e tirarli fuori ogni volta che provo ad alzare la testa».
Arturo alterna lavoro in fabbrica, assenze per malattia e molto d’altro
per tirare avanti. Ha abbandonato l’università in seguito a un grande
trauma, il terremoto al suo paese, San Giuliano di Puglia, e ha
cominciato a farsi.
Abbiamo iniziato il nostro viaggio alla Sevel di
Atessa, Val di Sangro, Abruzzo. Assegneremo nomi di fantasia a molti
interlucutori, ragazzi e ragazze che usano sostanze stupefacenti,
delegati sindacali che chiedono l’anonimato, operatori delle forze
dell’ordine impegnati nell’antidroga. La Sevel è la principale fabbrica
italiana della Fiat per numero di addetti dopo Mirafiori. Vi si
costruiscono i furgoni Ducato per la multinazionale torinese e per la
francese Psa (Peugeot e Cytroen), un prodotto che non sta risentendo
della crisi internazionale dell’automobile. Dalla nascita, nel 1980, la
Sevel ha progressivamente aumentato la sua capacità produttiva e oggi
dà lavoro a 6.500 persone sui tre turni, mattino, pomeriggio, notte, a
cui si aggiungono quasi duemila operai di ditte esterne che operano nel
perimetro dello stabilimento e migliaia di addetti dell’indotto. Solo
in Val di Sangro sono 10 mila le famiglie che vivono di Sevel, tra i 10
e i 15 milioni di euro al mese che rappresentano la principale fonte di
reddito della valle. Inutile dire che al peso economico dell’azienda si
aggiunge quello politico. Una situazione per molti aspetti analoga a
quella determinatasi in Basilicata con l’arrivo della Fiat-Sata.
L’azienda procede con assunzioni massicce – ci racconta la nostra
guida, il delegato Fiom Antonio Di Tonno – grandi infornate di ragazzi
e ragazze diciottenni selezionati alla bell’e meglio. Il bacino
primario ormai non è più sufficiente a soddisfare la domanda Fiat e
sono sempre più numerose le assunzioni effettuate in tutto il Chietino,
il Pescarese, il Molise, la Puglia, la Campania. Età media bassissima,
alto turnover perché qui «si fatica sodo»: «I giovani vivono in modo
estraniante il rapporto con la fabbrica e il sindacato, per non parlare
della politica. Pensano al pallone, alla pizza, alla discoteca. E alla
cocaina. C’è chi fa di tutto per non farsi confermare al termine del
periodo di prova, così da poter dire ai genitori: "io ho provato, non è
colpa mia se non mi hanno preso". Vuoi per questo atteggiamento, vuoi
per una diffusione della droga fuori controllo, adesso la Sevel sta
assumendo persone un po’ più grandi, tra i 25 e i 28 anni». Tanto i
delegati quanto un ufficiale dell’antidroga che in fabbrica è di casa,
con blitz notturni alla ricerca quasi sempre fruttuosa di sostanze,
valutano che un dipendente su due sia coinvolto con maggiore o minore
frequenza e dipendenza nel giro della cocaina. Fino a poco tempo fa,
dosi massicce di droga venivano trovate negli armadietti degli operai.
Ci raccontano di sequestri di molte dosi di coca, di eroina e mattoni
fino a un chilo di peso di hashish. In tanti sono stati beccati, ora
tutti si sono fatti più accorti.
Il silenzio è d’oro
Non sempre i
rapporti delle forze dell’ordine con la sicurezza aziendale sono
idilliaci, così ai blitz interni allo stabilimento si aggiungono quelli
fuori, a colpo sicuro. Perché tossici e spacciatori sono ricattabili,
ed è da loro che arrivano le soffiate a Ps e Cc. E all’azienda, che
talvolta utilizza le spiate per poi compromettere gli spioni facendo a
sua volta spiate ai i loro compagni di lavoro. Ci sono stati arresti,
ma tutto resta sotto traccia, e la stampa, anche quella locale, tace.
La Procura si muove con i piedi di piombo, a volte neanche sostiene il
lavoro dei Pm che autorizzano l’utilizzo delle cimici nel tentativo di
arginare il fenomeno. «In fabbrica – dice Antonio – è saltato l’ordine.
E l’azienda, dopo aver lavorato con costanza a neutralizzare il
sindacato, ora lamenta la mancanza di un’interlocuzione con noi, nel
senso che non siamo più un interlocutore forte di una conoscenza
approfondita della fabbrica, degli operai, dei problemi».
Questi
giovani operai e operaie sono completamente diversi dalla classe
operaia che conosciamo e raccontiamo. I «vecchi» con vent’anni e più di
servizio in Sevel, sono furiosi con le nuove generazioni in tuta blu:
«Se le cercano, non vogliono fare un cazzo, ti contattano solo per
farsi spostare in postazioni migliori. Sono individualisti e non ci
rispettano, la droga li ha svuotati dentro. Invece del lavoro – dicono
– hanno in testa la cocaina». Su una cosa vecchi e giovani
sembrerebbero uniti: votano in maggioranza a destra, per Fini e
Berlusconi, o non votano, anche molti di quelli che avevano investito
sul governo Prodi e sono rimasti delusi. Anche qualche iscritto ai
sindacati, persino un po’ di delegati possono votare a destra: «Con la
tessera difendono il salario dal padrone, con il voto a destra lo
difendono dallo stato che ci massacra con le tasse». «La fabbrica è
diventato un supermercato, si vende di tutto: puoi acquistare un motore
Alfa, un paracarro, uno stereo, ogni tipo di droga proveniente
soprattutto da Napoli attraverso i camionisti che portano in fabbrica
componenti e materiale necessario alla produzione dei furgoni. La roba
finisce in mano agli spacciatori interni e, di mano in mano, raggiunge
tutti i reparti, poi esce dalla fabbrica e arriva nei paesi dove tutti
consumano droghe leggere e tanti, forse addirittura l’80%, si fanno di
coca, dai 14 ai 40 anni», racconta un addetto alla repressione esterna
e ci confermano i ragazzi con cui parliamo, nonché il segretario della
Fiom abruzzese, Marco Di Rocco: «Una piaga sociale».
Ma il processo
di trasformazione culturale riguarda innanzitutto la fabbrica: ci si fa
sulla linea di montaggio, si sniffa nelle pause vicino all’armadietto e
al cesso ci si buca. Qualche volta, ci dice un ufficiale, «sono stati
beccati dei ragazzi esaltati che facevano l’amore dentro i furgoni che
costruiscono». I furti negli armadietti non si contano, «riescono a
svuotarne così tanti perché operano in squadre organizzate», ci dice un
altro delegato. Ma spariscono anche i sifoni dei bagni, gli specchi.
«Tutto per quattro soldi, per un quartino». Il quartino è una dose da
un quarto di grammo di coca, con una ventina di euro te la porti a casa
o alla catena. Il suo prezzo, da Napoli ad Atessa, può anche triplicare.
Ricatti e minacce
Perché
lo fanno? «Perché sono uguali ai loro coetanei che studiano o
vivacchiano in paese. Qualcuno – ci dice chi si occupa di droga nel
territorio di Lanciano – all’inizio tira coca per reggere un lavoro
molto pesante, ma non è questa la motivazione prevalente. Lo fanno
soprattutto la notte perché la sorveglianza è minore. E se chi spaccia
è ricattabile, i sorveglianti interni non hanno strumenti per
intervenire e vengono minacciati». Giulietta e Romeo sono due operai in
trattamento da qualche anno al Ser.T. Eroinomani, ora vivono con la
loro dose quotidiana di metadone e giurano di esserne fuori. Giulietta
ha ereditato un’epatite C dal tempo in cui si bucava, è stata
trasferita dalla linea a un posto più umano solo dopo quattro
svenimenti. Ora lavora in verniciatura, che non è l’ideale per chi ha
il fegato compromesso. Il nostro delegato Fiom si impegna di fronte a
noi ad aiutarla a farsi trasferire in un posto compatibile con il suo
stato di salute. Questo fanno i delegati, spesso chiamati a «dare una
mano» con i capi, per ottenere turni o postazioni migliori: «Mi
arrivano in casa – dice Antonio – i genitori di ragazzi finiti nella
spirale. Chiedono aiuto». Molti sono giovani con contratti atipici. Si
subisce il turno di notte perché sei precario e ricattabile, o lo si
sceglie per guadagnare 300 euro in più, o perché «ci si può drogare
senza troppe rotture di coglioni». I «pipistrelli» spesso vivono la
notte come un «regalo», e lavorano a testa bassa per difenderlo.
Il
Ser.T di Lanciano ha 220 utenti, la metà sono operai Sevel. «Non ci si
fa per reggere la fatica. Molti arrivano in fabbrica già legati alla
coca o all’eroina. All’inizio può darti un po’ di carica, se la
controlli ti aiuta ma se ne fai un uso eccessivo non riesci più a
lavorare. Il fisico regge meglio l’eroina – sostiene Romeo – che dà
assuefazione solo psicologica. Con l’ero e poi passando al metadone
riesci a fare la tua vita. Con la coca è peggio, 30 euro al giorno per
la dose è tutto quello che cerchi. Si sente dire che al montaggio c’è
stato qualche caso di ragazze che si prostituivano per tirar su i
soldi». Questo è un tabù, anche chi è disposto a raccontarti tutto
finge di non sapere, di non aver capito la domanda. Si sa «ma non si
dice, sono solo voci che corrono». Corrono in fretta. Ripeti la domanda
e allora la risposta è obbligata: «Una volta succedeva, adesso meno e
solo a fine mese quando lo stipendio è finito». Rimozione o pudore?
Forse entrambe le cose. Giulietta dice di dover ringraziare un capo che
l’ha aiutata quando era ridotta molto male e pesava 38 chili: «Ero
arrivata a consumare anche 80 euro al giorno per l’eroina, e a quel
punto non ti resta che spacciare», se di prostituirti non vuoi sentir
parlare. Che cos’è il lavoro per questi ragazzi? Per Romeo «è la cosa
principale, mi dà un senso, un’identità» e invece per Giulietta «non è
possibile identificarsi con questo lavoro. Se potessi me ne andrei
domani. Ma non in un’altra fabbrica, tutto sommato la Sevel è il
miglior posto di lavoro in zona. Vorrei fare altro nella vita». E il
sindacato? «Ho un buon rapporto, è importante il sindacato. Però –
ammette Romeo – raramente partecipo agli scioperi». E Giulietta: «Io
non ho rapporti, i miei delegati sono pappa e ciccia col padrone. Solo
la Fiom si salva. Però agli scioperi aderisco, almeno a quelli di otto
ore così mi risparmio la fatica di andare in fabbrica». Perché vi fate?
«Prova tu a vivere in questi paesi, poi lo capisci e ti fai anche tu».
Non ha dubbi Giulietta. Ora riesce a vivere decentemente insieme al suo
compagno. «Ormai siamo fuori. Ma non dal metadone, quello te lo porti
dietro tutta la vita». Romeo non ha rinunciato all’idea di liberarsi
anche del metadone, «una volta ci ho provato, forse proverò ancora».
Sono due utenti modello, da cinque anni non si bucano e riescono a
farsi le vacanze fuori: prima però passano al Ser.T, si portano le dosi
quotidiane e poi via, alla ricerca di una vita normale. Con chiunque
parli ti senti ripetere che con la cocaina non c’è problema, «puoi
smettere quando vuoi». Fatto sta che non smettono. In pochi ammettono
di essere tossicodipendenti. Lo raccontano a noi o a se stessi?
La crisi della comunità
L’impressione
che si trae da questo primo giro è che la «diversità» operaia sia
finita, i giovani in tuta sono uguali a quelli senza perché la fabbrica
non è più una comunità, un luogo identitario, di aggregazione. Si
condivide una stessa condizione di lavoro ma è più facile mettersi
insieme per sniffare che per lottare contro il padrone. La fabbrica è
sempre più un luogo di transito per i giovani. E un luogo di consumo,
di spaccio. (1/continua)
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